giovedì 29 maggio 2014

L'assistenza "ufficiale"

In questi giorni, mi ritrovo costretto a riflettere, più di altri giorni, sui possibili modelli di manutenzione per la gestione del parco delle apparecchiature biomedicali all'interno di un'azienda sanitaria.
Ho molto apprezzato la giornata dello scorso 4 aprile, all'interno del Convegno Nazionale AIIC (associazione della quale faccio parte), durante la quale sono stati sviscerati alcuni degli aspetti salienti del problema. La questione è tornata alla ribalta anche durante una sessione pomeridiana del 22 maggio scorso all'interno di Exposanità, organizzata proprio da AIIC, segno che il tema, dopotutto è ancora molto caldo.
Provo ad analizzarne un punto molto dibattuto. Appena avrò un attimo di tempo, proverò ad elaborarne altri.

Cominciamo dal concetto di "alta tecnologia". All'interno delle aziende sanitarie ci sono alcune apparecchiature con un reale elevato livello tecnologico.



La chirurgia robotica o i grandi impianti come CT, MR, PET, LINAC, ecc. ne rappresentano un chiaro esempio. Diciamo che c'è sicuramente un'"altissima" tecnologia che è facile riconoscere, e che, per la quale, non si sta tanto a discutere su quale debba essere il modello di manutenzione. Aldilà di accordi con eventuali intermediari, appare chiaro a tutto il mondo dell'ingegneria clinica, che ci sono fortissime ragioni di opportunità che consigliano (per usare un eufemismo) di affidare direttamente al costruttore la manutenzione di queste apparecchiature.

Tuttavia c'è una sottile linea rossa, non ben definita (ne men che meno normata), che separa l'insieme di queste tecnologie da quello delle tecnologie con un livello tecnologico più basso, sulle quali i contratti di manutenzione spesso non sono affidati ai costruttori. Su questo tema, di solito, ci si scatena con dibattiti anche molto accesi. Si tratta di difendere la sicurezza nell'utilizzo delle apparecchiature biomedicali, o si tratta di difendere interessi economici? Non sono certo io la persona in grado di dare questa risposta. Mi limito ad osservare questa "battaglia" che esiste da molto prima che io mi cominciassi ad occupare di ingegneria clinica. 

Ancora ricordo discussioni molto forti legate all'eventuale perdita della conformità CE in caso di manutenzione errata. Forse sbagliando, io ero (e sono tuttora) un sostenitore che la conformità alla direttiva 2007/47/CE (ex 93/42/CE) che disciplina i Dispotivi Medici, è una conformità di modello, non certo una garanzia di sicurezza del singolo prodotto. L'adempienza del costruttore alla norma tecnica CEI EN 60601-1 (nel caso di apparecchiature elettromedicali) è già garanzia di tanti aspetti costruttivi sui singoli pezzi prodotti. Inoltre le prove da sostenere all'accettazione, periodicamente, e comunque dopo ogni intervento tecnico dettate dalla CEI EN 62353 chiudono il cerchio e dovrebbero essere garanzia di manutenzione eseguita a regola d'arte.
 
I costruttori, chiaramente schierati dal lato di chi rivendica la prelazione sulla manutenzione delle apparecchiature di marca propria, hanno negli anni concesso piccole aperture. Si ritrova spesso la parola "personale autorizzato" che fa intuire che esista un percorso seguendo il quale, pur non portando il cartellino di una determinata ditta costruttrice, possa essere possibile avere una certificazione di qualche tipo, seguendo magari dei corsi ufficiali erogati dal costruttore. Si tratta di un concetto aleatorio, secondo il mio punto di vista, e cerco di spiegarlo con qualche esempio: nel caso di grandi società di servizi che offrono servizi di manutenzione multivendor, deve essere il singolo tecnico specializzato alle dipendenze di queste società ad essere "autorizzato", o la società di servizi stessa può, dopo un tot di ore di formazione acquisite da un costruttore, dichiarare di essere in possesso di un'"autorizzazione" in senso esteso a fare manutenzione su determinate apparecchiature (magari facendo formazione a cascata interna)? E soprattutto, laddove i costruttori siano aziende estere, magari molto lontane, con prodotti di nicchia, senza una vera e propria rete di assistenza e formazione worldwide, come ci si deve comportare? Nessuno è "autorizzato" in quel caso? E se l'azienda chiude e non può più di fatto autorizzare nuovi soggetti ad eseguire lavori di manutenzione? Valgono solo i soggetti "autorizzati" fino a quel momento? E potremmo andare avanti con tanti altri dubbi.



Lascio le questioni volutamente aperte, perché in Italia, il modello CONSIP SIGAE ha già, secondo me, dato, in parte, una risposta a queste domande. Ha sancito in qualche modo la legittimità di erogare servizi di manutenzione sulle apparecchiature biomedicali da parte dei "non" costruttori. Sia chiaro, a me non piace il modello SIGAE per le ragioni che esporrò di seguito, ma è indubbio che stabilisca un principio.

Il mio personale punto di vista è che vanno recuperate le ragioni di opportunità e di responsabilità nell'affidare i contratti di manutenzione. Noi ingegneri clinici stiamo li apposta anche per questo. Posso decidere di prendere decisioni "strane" o poco ortodosse se legate a fattori diversi: posso stipulare un contratto di manutenzione full-risk 24/7 direttamente con il costruttore per i miei "stupidi" registratori Holter da 2.000 euro, perché la mia attività ambulatoriale cardiologica regge l'intera azienda e magari posso decidere di non stipulare alcun contratto, sopportando fermi macchina anche molto lunghi, su un VideoEEG da 40.000 euro, perché semplicemente non inserito in alcun processo critico aziendale. Rivendico il diritto di assumermi la responsabilità di affidare al tecnico interno la gestione dei defibrillatori e di pagarne le conseguenze del caso, in caso di incidente legato a cattiva manutenzione.

Insomma, non voglio certo dichiarare guerra ai costruttori, e i tanti fornitori che lavorano per la mia azienda lo sanno benissimo. Voglio ristabilire i concetti portanti sulla delega delle responsabilità. Nel mio stipendio (non altissimo, a dire la verità) c'è anche la responsabilità di queste decisioni, e semplicemente la rivendico.