lunedì 9 giugno 2014

Nel labirinto delle definizioni

Qualche tempo fa mi è successa una cosa singolare, che ha rafforzato la mia ipotesi riguardo al fatto che su argomenti come conformità CE, direttive, norme tecniche, classificazione nazionale dei dispositivi, ecc., ci sia ancora confusione. Sicuramente ce n'è ancora per me, così approfitto per schiarirmi le idee condividendole sul blog.
L'episodio in questione è il seguente: dovevo effettuare un collaudo di un frigorifero "biologico" (le virgolette sono assolutamente volute) nel mio reparto di Microbiologia. Nel plico di documentazione che mi fornisce il fornitore c'è una dichiarazione di conformità. In un unico foglio di carta intestata del fabbricante (fornitore e fabbricante sono in questo caso ditte diverse), è riportata la conformità del modello del frigorifero in questione alle direttive 2006/42/CE, 2006/95/CE, 2004/108/CE e 93/42/CE.
Sgrano gli occhi. Leggo meglio.
2006/42/CE, direttiva macchine. Ok.
2006/95/CE, direttiva bassa tensione. Ok.
2004/108/CE, direttiva compatibilità elettromagnetica. Ok.
93/42/CE, direttiva dispositivi medici. Cosa?



Chiedo allora al fornitore di confermarmi che il frigorifero in questione fosse stato effettivamente certificato come Dispositivo Medico ai sensi della 93/42/CE e, come purtroppo spesso accade, il fornitore cade dalle nuvole, come se io stessi parlando un'altra lingua. "Ingegnere, noi diamo sempre questo foglio, non ci hanno mai fatto problemi". Certo, neanche io voglio passare per quello che "fa problemi", quindi completo l'analisi della documentazione, ma rimando il collaudo a dopo che avrò avuto un chiarimento con la casa costruttrice.
Scrivo quindi un'e-mail al costruttore chiedendo conferma della dichiarazione di conformità. Scrivo anche che gradirei, nel caso mi confermassero che trattasi di Dispositivo Medico, il codice CND e il numero di Repertorio. Il costruttore, in tempi record, devo ammetterlo, mi risponde che effettivamente il frigorifero in questione non è certificato come Dispositivo Medico e che nella dichiarazione è riportata la 93/42/CE perché loro producono anche frigoemoteche che sono Dispositivi Medici in classe IIa. Faccio semplicemente notare che sulla loro dichiarazione è riportato solo il modello di frigorifero in questione e non un elenco di apparecchi e li invito a fare maggiore attenzione nella redazione delle loro dichiarazioni. Non entro eccessivamente in polemica, essendo io fondamentalmente un "amante della pace", come diciamo a Napoli, ma avrei voluto far notare con forza che quella dichiarazione costituiva a tutti gli effetti un falso.
Sono stato tollerante soprattutto per il fatto che io personalmente ho sbattuto la testa su questioni come queste tantissime volte. In alcuni casi senza venirne completamente a capo.

Cominciamo dall'inizio.
C'era una volta la Norma Tecnica CEI 62-5 (fine anni 80). Con questa norma si è introdotta la definizione di Apparecchiatura Elettromedicale. Questa norma poi negli anni viene aggiornata, viene armonizzata e ce la ritroviamo internazionale con la sigla IEC 60601-1. Questa norma tecnica introduce i concetti riguardanti la progettazione e la produzione in sicurezza delle apparecchiature elettriche ad uso medico.
La definizione di Apparecchiatura Elettromedicale presente in questa norma è la seguente:
“Apparecchio elettrico, munito di non più di una connessione ad una particolare rete di alimentazione, destinato alla diagnosi, al trattamento o alla sorveglianza del paziente sotto la supervisione di un medico, e che entra in contatto fisico od elettrico con il paziente e/o trasferisce energia verso o dal paziente e/o rileva un determinato trasferimento di energia verso o dal paziente. L’apparecchio comprende quegli accessori, definiti dal costruttore, che sono necessari per permetterne l’uso normale dell’apparecchio”.

Ma cos'è una Norma Tecnica CEI? Che valore ha questa definizione?
Una legge del '68 stabilisce che il Comitato Elettrotecnico Italiano fosse tra quegli organismi in grado di emanare Norme Tecniche, seguendo le quali, ci si potesse fregiare della dicitura "Eseguito a regola d'arte". Lo scenario quindi è quello di un fabbricante che ha di fronte una scelta: costruire un'apparecchiatura rispettando tutte quelle che sono le indicazioni della CEI 62-5, o no. Nel primo caso, potrà scrivere nel manuale "costruito a regola d'arte" (o più semplicemente conforme alla Norma tecnica CEI 62-5), nel secondo caso non potrà ovviamente scriverlo. Ma potrà vendere l'apparecchiatura? E un operatore sanitario potrà utilizzarla?

Sono chiaramente dubbi legittimi e occorre una vera e propria legge che regolamenti un aspetto del genere, perché una Norma tecnica, per quanto ben fatta e sensata, resta pur sempre un'indicazione e non un obbligo.

Seguendo quella che era la necessità di regolamentare questi aspetti, nel 1993, la Comunità Europea, emana una direttiva, la 93/42/CEE. La celeberrima "Direttiva Dispositivi Medici". Ma una direttiva CE è legge? Beh, non proprio. Una direttiva CE è un accordo che vale tra la Comunità Europea e gli Stati Membri, per armonizzare le leggi tra i diversi Stati, ma non agisce direttamente sul diritto degli Stati. Gli Stati devono recepire la direttiva con una loro legge, ma finché non lo fanno, quello che è scritto nella direttiva non è di fatto ancora legge. In Italia ci mettiamo un po' di tempo, ma nel 1997 con il Decreto Legislativo 46/97 rendiamo la direttiva 93/42/CEE una legge dello Stato. Anche questa direttiva poi con il tempo viene aggiornata, oggi è la 2007/47/CE (recepita in Italia con il Decreto Legislativo 37/2010).
In ogni caso, dopo i vari recepimenti, parliamo di "legge dello Stato", non tanto di "consigli" o "prescrizioni".

La Direttiva DM introduce una nuova definizione, quella di Dispositivo Medico, appunto (cito direttamente l'ultima, quella della 2007/47/CE):
"Qualunque strumento, apparecchio, impianto, software, sostanza o altro prodotto, utilizzato da solo o in combinazione, compreso il software destinato dal fabbricante ad essere impiegato specificamente con finalità diagnostiche o terapeutiche e necessario al corretto funzionamento del dispositivo, destinato dal fabbricante ad essere impiegato sull'uomo a fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione di una malattia; di diagnosi, controllo, terapia, attenuazione o compensazione di una ferita o di un handicap; di studio, sostituzione o modifica dell'anatomia o di un processo fisiologico; di intervento sul concepimento, il quale prodotto non eserciti l'azione principale, nel o sul corpo umano, cui è destinato, con mezzi farmacologici o immunologici né mediante processo metabolico ma la cui funzione possa essere coadiuvata da tali mezzi;"

Questa definizione contiene moltissimi spunti interessanti. Il primo è che finalmente si capisce chi decide se qualcosa è o non è un Dispositivo Medico: questo "chi" è il "fabbricante". Su questo vorrei davvero spendere una parola in più. A volte, con molti colleghi si cade nella discussione se qualcosa sia o non sia Dispositivo Medico. Ma è una discussione posta male. E' il fabbricante che decide la destinazione d'uso dell'oggetto che produce, non un soggetto terzo, ne l'oggetto in sè possiede l'investitura di Dispositivo Medico a prescindere. Non è la parola "bisturi" ad identificare il bisturi come Dispositivo Medico in "assoluto". E' un fabbricante X che ne dichiara la destinazione d'uso e segue passo passo le procedure descritte nella direttiva per ottenere la conformità del suo prodotto. Un fabbricante Y potrebbe costruire bisturi per uso ornamentale o per l'intaglio del legno o delle stoffe e quindi di fatto produrre degli oggetti dalla forma e dal funzionamento molto simile ad un bisturi "medico", ma che non sono Dispotivi Medici. E chiaramente non sono illegali in sè. Non riporteranno di certo la conformità alla 93/42/CEE, ma non per questo non potranno essere venduti. Appare chiaro che la responsabiltà sul fatto che un chirurgo possa utilizzare un taglierino per il cartone al posto di un bisturi DM, in sala operatoria, non potrà mai ricadere sul fabbricante del taglierino di cartone. Diverso (ma più ovvio) il caso di chi spaccia un prodotto per Dispositivo Medico, ma poi non ha la conformità CE ai sensi della 93/42/CEE. In questo caso siamo in presenza di una grave, ma semplice, frode.
E' possibile fare esempi un po' meno "surreali" approfittando del fatto che la 2007/47/CE ha introdotto il concetto di Software Dispositivo Medico, rispetto alla 93/42/CEE: un software che mi permette di visualizzare le immagini in formato DICOM, prelevandole da un PACS o da un DVD, è un Dispositivo Medico? Deve esserlo? Come detto prima le domande sono malposte. La domanda giusta è "Questo software X che voglio usare per refertare le immagini radiologiche, e quindi per fare diagnosi, è stato destinato dal fabbricante per questo uso e di conseguenza risulta certificato come Dispositivo Medico?". Non sono certo illegali tutti i visualizzatori DICOM che sono liberamente scaricabili dal web. Non è neanche illegale utilizzarli per visualizzare immagini mediche. Certo, non si possono vendere come Dispositivi Medici ne tantomeno utilizzare come Dispositivi Medici. E qualora un utilizzatore decida consapevolmente di utilizzare un dispositivo non certificato come Dispositivo Medico a fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione, deve capire bene che il fabbricante di quel dispositivo non è in alcun modo responsabile delle possibili conseguenze nefaste.

Appare poi subito evidente come la definizione di DM sia molto ampia, si va dal cerotto al tunnel di lavaggio. Molto più ampia di quella che era la definizione di Apparecchiatura Elettromedicale della 62-5. Quello che non è altrettanto evidente in alcuni casi è l'allineamento tra direttive e norme tecniche.


Il disegno che vedete è un mio disperato tentativo di mettere in ordine le idee sull'argomento. Non ha certo la presunzione di essere un punto di riferimento, quindi invito tutti a guardarlo con profondo senso critico.
L'intero cerchio bianco è l'insieme di tutti i dispositivi e apparecchi ad uso medico nel senso più largo del termine. In senso antiorario troviamo innanzitutto i DM secondo la 2007/47/CE, poi troviamo gli IAD (Dispositivi Impiantabili Attivi) ai sensi della 90/385/CEE e infine gli IVD (Dispositivi Diagnostici in Vitro) ai sensi della 98/79/CEE. Queste 3 direttive si autoescludono proprio all'interno dei loro testi, quindi possiamo considerarli insiemi senza intersezione: un dispositivo o è un DM, o è un IAD o è un IVD, o non appartiene a nessuna delle 3 tipologie.

A questo punto ho provato a sovrapporci sopra le tre principali Norme Tecniche di riferimento, la IEC 60601-1 (Apparecchiature Elettromedicali, CEI 62-5), la UNI CEI EN 45502-1 (poi standardizzata ISO 14708-1, Dispositivi elettrici impiantabili attivi, CEI 62-104) e IEC 61010-1 (Apparecchi elettrici di misura, controllo e per utilizzo in laboratorio, CEI 66-5).

Prima di fare alcuni esempi, in modo da capire meglio quali apparecchiature possano appartenere ai vari "settori", aggiungo un ulteriore spunto, aggiuntiva fonte di scompiglio (almeno lo è stata all'inizio per me): la Classificazione Nazionale dei Dispositivi, nota semplicemente come CND, del Ministero della Salute.
Fino al 2008, l'Osservatorio per i Prezzi e le Tecnologie, abbreviato in OPT, monitorava, insieme al Ministero e ai costruttori, le varie tecnologie attraverso una codifica che è rimasta ancora oggi nella mente degli ingegneri clinici, il codice CIVAB. La forza del codice CIVAB è nel fatto che si tratta di un codice parlante. E' un codice composto da 6 lettere fisse, nel quale le prime tre lettere identificano la tipologia di apparecchiatura e le ultime 3 il costruttore, seguite da un gruppo di caratteri alfanumerici che identifica il modello. La sigla VPO, così come tante altre, è entrata per molti ingegneri anche nel parlare comune ad identificare i ventilatori polmonari. E praticamente tutti i software implementano il codice CIVAB nella scheda anagrafica delle apparecchiature.
Sta di fatto che dal 2008 l'OPT non effettua più alcun monitoraggio e il sistema di classificazione ufficiale è diventato il CND. Il CND purtroppo non è più "parlante". E' composto da una lettera, che identifica la tipologia di dispositivo e da una serie di numeri (sempre in numero pari) che ne caratterizzano la tipologia. Quali sono i vantaggi del CND? Innanzitutto il CND racchiude in sè tutti i dispositivi che rientrano nelle 3 direttive comunitarie citate sopra. I dispositivi impiantabili attivi sono racchiusi nei codici che iniziano con la lettera J. I dispositivi diagnostici in vitro sono quelli che iniziano con la lettera W. I dispositivi medici ai sensi della 93/42/CEE e successiva 2007/47/CE sono tutti gli altri. Quindi sono classificati tutti i dispositivi, non solo le apparecchiature. Inoltre pur non essendo il codice parlante, la struttura segue una gerarchia e quindi consente di raggruppare a piacere dispositivi in diverse radici.
Z1104 è genericamente "STRUMENTAZIONE PER ECOGRAFIA"
Z110401 sono gli "ECOTOMOGRAFI INTERNISTICI"
Z11048001 sono le "SONDE ECOGRAFICHE"

Da notare che è diverso anche il meccanismo con il quale viene assegnato il codice CND rispetto al CIVAB. Oggi è il fabbricante (o l'assemblatore) che fa richiesta di inserimento nel repertorio dei Dispositivi Medici al Ministero e sceglie un codice CND per il quale poi ottenere il numero di repertorio. Il risultato è che prodotti anche molto simili, ma di fabbricanti diversi, possono risultare avere codici CND diversi, nati da diverse scelte dei fabbricanti.
Quando cominciai a giocare con il CND, la prima lettera del CND mi generò una falsa convinzione: visto che tutti i dispositivi con la J erano gli IAD e tutti quelli con la W erano gli IVD, diedi per scontato che tutti quelli con la Z fossero Apparecchiature Elettromedicali. Non è così, invece.


Me ne accorsi non appena cominciai ad occuparmi di letti elettrici da degenza e di materassi antidecubito elettrici. Questi dispositivi rientrano infatti in varie codifiche (a seconda dei fabbricanti), V0801, V0899, Y181210 per i letti e Y033306 per i materassi. Niente Z. E si tratta a tutti gli effetti di Apparecchiature Elettromedicali, conformi alla norma tecnica IEC 60601-1.

Non solo, nella classificazione Z ritroviamo anche apparecchiature che rientrano ovviamente nei dispositivi medici attivi, ma che non sono Apparecchiature Elettromedicali, come ad esempio le autoclavi (Z12011304 e Z12011305).

Tornando al mio "cerchio", provo a fare qualche esempio, prendendo spunto dalla mia esperienza.
Percorrendolo in senso antiorario, nella prima zona rossa troviamo i DM non attivi (bisturi, cerotti, protesi, aghi, siringhe, ecc.) o quelli attivi che non siano A.E. (tutti i software DM, le apparecchiature per lavaggio, disinfezione e sterilizzazione). Poi troviamo le "classiche" A.E. (elettrocardiografi, defibrillatori, ecotomografi, apparecchi per risonanza magnetica, ecc.). Poi troviamo una piccola fetta di DM che risponde però alla norma tecnica di sicurezza sulle apparecchiature di laboratorio (IEC 61010-1), ad esempio le frigoemoteche. Poi comincia la famiglia degli impiantabili attivi che, a parte gli impiantabili non elettrici, tipo gli elettrocateteri, va a braccetto con la UNI CEI EN 45502-1 (pacemaker, defibrillatori impiantabili, neurostimolatori, impianti cocleari, ecc.). Poi abbiamo i diagnostici in vitro. A parte provette, cuvette, bicchieri, tubi, contenitori, vaschette, ecc., le apparecchiature rispondono alle norme di sicurezza contenute nella IEC 61010-1. Infine abbiamo una terra di nessuno. In questa terra di nessuno ci finiscono alcune apparecchiature che seguono talvolta la IEC 61010-1 pur non essendo IVD ai sensi della 98/79/CE (ad esempio molti frigoriferi "biologici") e talvolta apparecchiature completamente "domestiche", come frigoriferi "non biologici" o alcuni fornetti incubatori (che io ho battezzato del "Mulino Bianco", buoni forse per riscaldarci le "nastrine", meno magari per le colture microbiche) che spesso ho trovato nei laboratori. Gli esempi seguono ovviamente la mia esperienza, non saprei neanche quanti altri casi di apparecchiature borderline esistono nelle nostre aziende sanitarie, probabilmente ancora molte.

PS. Si ringrazia, per il suo contributo indiretto a questo articolo, l'insostituibile collega Diego Giansanti. Se c'è qualche informazione corretta in questo articolo, lo si deve a lui. Tutte quelle sbagliate, invece, sono merito mio.

domenica 1 giugno 2014

Il paradigma "Full Risk"

Quando, tempo fa, cominciai ad occuparmi dei primi contratti di manutenzione, la domanda che mi veniva posta, alla fine, da parte del servizio di acquisizione beni e servizi della mia azienda era sempre: "Ma è Full Risk, vero?". Full Risk, due parole che dovevano avere per gli amministrativi uno strano potere ansiolitico, perché alla mia risposta: "Si, è Full Risk" seguiva una distensione muscolare generale oltre ad un sorriso di profonda approvazione.
Per chi fosse a digiuno del significato che solitamente viene dato a questa locuzione "assicurativa" nell'ambito dei contratti di manutenzione, spiego che un contratto Full Risk è quello che normalmente copre tutti i costi della manutenzione, dalle spese di manodopera e trasferta (normalmente coperte anche dai contratti non Full Risk), fino alle spese necessarie per gli eventuali ricambi.
Una polizza Kasko, in altre parole.



Da pivello, all'inizio, la soddisfazione del personale amministrativo mi bastava e mi avanzava. Chiudevo la pratica e, nell'eterna costante emergenza nella quale purtroppo oggi vive la Pubblica Amministrazione, aprivo semplicemente la successiva.
Dopo qualche tempo però ho cominciato a farmi delle domande.
In ogni contratto assicurativo c'è qualcuno che "vince" e qualcuno che "perde". Tutti noi stipuliamo una polizza RC per i nostri veicoli. Lasciando stare gli eventuali feriti e il vortice malvagio del meccanismo bonus-malus, possiamo semplificare dicendo che vince la compagnia assicurativa se il premio versato da noi è superiore ai risarcimenti che la compagnia dovrà pagare. Viceversa, nel caso ci capitasse la sventura di tamponare una Ferrari 458, la compagnia probabilmente risarcirà qualcosa in più del premio che le versiamo.



Così ho cominciato ad applicare il ragionamento ai contratti "Full Risk". E' chiaro che la soddisfazione dei miei amministrativi era dovuta alla sensazione (per non dire "illusione") di barattare un costo più alto con una maggiore serenità. Pago di più ma dormo sonni tranquilli. Anche la certezza della spesa rientra in questa serenità. Sapere che il contratto non avrà fluttuazioni, ma varrà sempre 100, mi consente di programmare meglio le mie spese.
La prima cosa che però mi ha ovviamente insospettito è stata la tendenza dei fornitori ad offrire principalmente contratti Full Risk. Quello che conviene alla "compagnia assicurativa" ho pensato, probabilmente non conviene a me. Il sospetto è diventata certezza, quando alcuni fornitori hanno cominciato a farmi problemi su alcuni contratti Full Risk perché le apparecchiature erano troppo obsolete. Del resto quale compagnia assicurativa stipulerebbe una polizza vita ad una persona molto anziana?

Teoricamente, dal punto di vista strettamente tecnico, il discorso è alla fine semplice: si tratta di valutare l'obsolescenza delle apparecchiature, l'indice di guasto, il costo medio pesato dei ricambi per tirare fuori uno score che stabilisca la convenienza o meno dello stipulare un contratto che copra tutto, o, in altri termini, di calcolarne il canone. Il problema è che questi dati sono principalmente in possesso del fornitore e non dell'azienda che ha il bene da "assicurare". E anche nel caso di aziende virtuose, con un sistema interno gestionale che tenga traccia di tutto, si hanno a disposizione ovviamente solo i dati relativi al proprio installato, mentre il fornitore ha sicuramente dati "migliori", avendo a disposizione i dati riguardanti l'intero installato mondiale.
La mia conclusione è stata che, spesso, quello che mi suggerisce il fornitore alla fine conviene sempre a lui, con ampio margine.

Ho cominciato allora a fare degli esperimenti. Mi sono fatto formulare delle offerte per i contratti di manutenzione, su apparecchiature di media tecnologia, che contemplassero solo la matenunzione preventiva e illimitate correttive a chiamata, ma ricambi eventuali esclusi. Ho così stimato in circa il 35-40% la riduzione del contratto. In altre parole, detto 100 il canone per un contratto Full Risk, il canone per un contratto non Full Risk era in media 60-65.
Ho quindi elaborato da solo un Case Study teorico: i defibrillatori. Ho cominciato a ragionare in termini molto semplici: se avessi un solo defibrillatore pagherei 100 punti per stare tranquillo o 65 punti sperando che non succeda nulla, o che almeno si rompano ricambi il cui costo non superi 35 punti? Mi sono risposto che questa non è ingegneria clinica, ma gioco d'azzardo. Qualunque ragionamento diventa inapplicabile sul singolo pezzo. Se però in azienda ho 50 defibrillatori, il discorso cambia. E cambia moltissimo. Pur non conoscendo io con esattezza l'indice di guasto dei miei defibrillatori, posso facilmente "scommettere" che avrò probabilmente, in un anno, un guasto sul 10% dei defibrillatori (un semplice dato storico). Si tratta quindi di stimare se la differenza tra l'aver "assicurato" tutti i 50 defibrillatori (100x50=5000 punti) e l'aver invece stipulato un contratto ricambi esclusi, non Full Risk (50x65=3250 punti), e quindi alla fine 1750 punti, basterà a coprire il costo dei ricambi per 5 defibrillatori guasti.
Qualcuno potrebbe obiettare che i livelli di servizio legati ad un contratto Full Risk sono migliori di un contratto non Full Risk, ad esempio in termini di tempi di risoluzione guasto. Ma è un'obiezione che non trova fondamento: se il contratto è identico al primo con la sola esclusione dei ricambi, a parte magari il tempo di un'eventuale autorizzazione ad eseguire la riparazione (che si riduce molto semplicemente autorizzando implicitamente tutti i ricambi al di sotto di una certa soglia), il tempo di risoluzione guasto resta legato principalmente al tempo di approvvigionamento del ricambio, che non cambia nelle due tipologie di contratto, e che rappresenta il collo di bottiglia maggiore. Inoltre spesso è possibile negoziare uno sconto fisso sul costo di listino del ricambio, in fase contrattuale, rendendo il contratto complessivo ancora meno oneroso.



Concludendo, il semplice porsi queste domande (badate bene, porsi le domande, non avere necessariamente tutte le risposte) è alla base della differenza tra l'avere un servizio di ingegneria clinica all'interno delle aziende e non averlo. Si tratta alla fine di valutazioni di opportunità che fanno parte endemicamente della nostra professione.

giovedì 29 maggio 2014

L'assistenza "ufficiale"

In questi giorni, mi ritrovo costretto a riflettere, più di altri giorni, sui possibili modelli di manutenzione per la gestione del parco delle apparecchiature biomedicali all'interno di un'azienda sanitaria.
Ho molto apprezzato la giornata dello scorso 4 aprile, all'interno del Convegno Nazionale AIIC (associazione della quale faccio parte), durante la quale sono stati sviscerati alcuni degli aspetti salienti del problema. La questione è tornata alla ribalta anche durante una sessione pomeridiana del 22 maggio scorso all'interno di Exposanità, organizzata proprio da AIIC, segno che il tema, dopotutto è ancora molto caldo.
Provo ad analizzarne un punto molto dibattuto. Appena avrò un attimo di tempo, proverò ad elaborarne altri.

Cominciamo dal concetto di "alta tecnologia". All'interno delle aziende sanitarie ci sono alcune apparecchiature con un reale elevato livello tecnologico.



La chirurgia robotica o i grandi impianti come CT, MR, PET, LINAC, ecc. ne rappresentano un chiaro esempio. Diciamo che c'è sicuramente un'"altissima" tecnologia che è facile riconoscere, e che, per la quale, non si sta tanto a discutere su quale debba essere il modello di manutenzione. Aldilà di accordi con eventuali intermediari, appare chiaro a tutto il mondo dell'ingegneria clinica, che ci sono fortissime ragioni di opportunità che consigliano (per usare un eufemismo) di affidare direttamente al costruttore la manutenzione di queste apparecchiature.

Tuttavia c'è una sottile linea rossa, non ben definita (ne men che meno normata), che separa l'insieme di queste tecnologie da quello delle tecnologie con un livello tecnologico più basso, sulle quali i contratti di manutenzione spesso non sono affidati ai costruttori. Su questo tema, di solito, ci si scatena con dibattiti anche molto accesi. Si tratta di difendere la sicurezza nell'utilizzo delle apparecchiature biomedicali, o si tratta di difendere interessi economici? Non sono certo io la persona in grado di dare questa risposta. Mi limito ad osservare questa "battaglia" che esiste da molto prima che io mi cominciassi ad occupare di ingegneria clinica. 

Ancora ricordo discussioni molto forti legate all'eventuale perdita della conformità CE in caso di manutenzione errata. Forse sbagliando, io ero (e sono tuttora) un sostenitore che la conformità alla direttiva 2007/47/CE (ex 93/42/CE) che disciplina i Dispotivi Medici, è una conformità di modello, non certo una garanzia di sicurezza del singolo prodotto. L'adempienza del costruttore alla norma tecnica CEI EN 60601-1 (nel caso di apparecchiature elettromedicali) è già garanzia di tanti aspetti costruttivi sui singoli pezzi prodotti. Inoltre le prove da sostenere all'accettazione, periodicamente, e comunque dopo ogni intervento tecnico dettate dalla CEI EN 62353 chiudono il cerchio e dovrebbero essere garanzia di manutenzione eseguita a regola d'arte.
 
I costruttori, chiaramente schierati dal lato di chi rivendica la prelazione sulla manutenzione delle apparecchiature di marca propria, hanno negli anni concesso piccole aperture. Si ritrova spesso la parola "personale autorizzato" che fa intuire che esista un percorso seguendo il quale, pur non portando il cartellino di una determinata ditta costruttrice, possa essere possibile avere una certificazione di qualche tipo, seguendo magari dei corsi ufficiali erogati dal costruttore. Si tratta di un concetto aleatorio, secondo il mio punto di vista, e cerco di spiegarlo con qualche esempio: nel caso di grandi società di servizi che offrono servizi di manutenzione multivendor, deve essere il singolo tecnico specializzato alle dipendenze di queste società ad essere "autorizzato", o la società di servizi stessa può, dopo un tot di ore di formazione acquisite da un costruttore, dichiarare di essere in possesso di un'"autorizzazione" in senso esteso a fare manutenzione su determinate apparecchiature (magari facendo formazione a cascata interna)? E soprattutto, laddove i costruttori siano aziende estere, magari molto lontane, con prodotti di nicchia, senza una vera e propria rete di assistenza e formazione worldwide, come ci si deve comportare? Nessuno è "autorizzato" in quel caso? E se l'azienda chiude e non può più di fatto autorizzare nuovi soggetti ad eseguire lavori di manutenzione? Valgono solo i soggetti "autorizzati" fino a quel momento? E potremmo andare avanti con tanti altri dubbi.



Lascio le questioni volutamente aperte, perché in Italia, il modello CONSIP SIGAE ha già, secondo me, dato, in parte, una risposta a queste domande. Ha sancito in qualche modo la legittimità di erogare servizi di manutenzione sulle apparecchiature biomedicali da parte dei "non" costruttori. Sia chiaro, a me non piace il modello SIGAE per le ragioni che esporrò di seguito, ma è indubbio che stabilisca un principio.

Il mio personale punto di vista è che vanno recuperate le ragioni di opportunità e di responsabilità nell'affidare i contratti di manutenzione. Noi ingegneri clinici stiamo li apposta anche per questo. Posso decidere di prendere decisioni "strane" o poco ortodosse se legate a fattori diversi: posso stipulare un contratto di manutenzione full-risk 24/7 direttamente con il costruttore per i miei "stupidi" registratori Holter da 2.000 euro, perché la mia attività ambulatoriale cardiologica regge l'intera azienda e magari posso decidere di non stipulare alcun contratto, sopportando fermi macchina anche molto lunghi, su un VideoEEG da 40.000 euro, perché semplicemente non inserito in alcun processo critico aziendale. Rivendico il diritto di assumermi la responsabilità di affidare al tecnico interno la gestione dei defibrillatori e di pagarne le conseguenze del caso, in caso di incidente legato a cattiva manutenzione.

Insomma, non voglio certo dichiarare guerra ai costruttori, e i tanti fornitori che lavorano per la mia azienda lo sanno benissimo. Voglio ristabilire i concetti portanti sulla delega delle responsabilità. Nel mio stipendio (non altissimo, a dire la verità) c'è anche la responsabilità di queste decisioni, e semplicemente la rivendico.