giovedì 9 aprile 2015

Ansia da prestazione

Da tempo desidero toccare un tabù di noi ingegneri clinici. C'è naturalmente a spingermi un po' di sano spirito di contraddizione, ma anche un piccolo, non saprei però quanto valido, ragionamento.
Sicuramente l'aver noi portato come una sorta di bandiera questo dato, quasi fosse l'unico indicatore di performance dei servizi di ingegneria clinica, credo abbia contribuito, magari in piccola parte, alla continua corsa al ribasso dei costi legati alla manutenzione delle apparecchiature biomediche.
Stiamo parlando della famigerata percentuale di manutenzione sul valore di rinnovo.
Per i pochi che non sapessero di cosa si stia parlando, faccio una minuscola parentesi.
Quando acquistiamo un'apparecchiatura, questa porterà con sé inevitabilmente dei costi di manutenzione. Aldilà della formula scelta per la gestione della manutenzione (contratto full risk, contratto non full risk, gestione interna con acquisto dei ricambi, ecc) possiamo immaginare di sommare tutto ciò che è stato speso per la manutenzione di quella apparecchiatura in un anno e confrontare questo dato con il costo che dovremmo affrontare per sostituire quell'apparecchiatura con una apparecchiatura analoga nuova. Questo dato, applicato all'intero parco di apparecchiature, è uno dei KPI (Key Performance Indicator) maggiormente usati per valutare la bontà e l'efficacia del lavoro di un servizio di ingegneria clinica. Anni fa il target di questo KPI era 0.1, ossia, se si riusciva a stare sotto il 10% del valore del parco, si era "bravi". Quindi immaginando un parco con un valore di rinnovo di 40 milioni di euro, riuscire a spendere di manutenzione meno di 4 milioni di euro era considerato un buon risultato.
Negli anni questa percentuale è progressivamente scesa.


Magari qualcuno potrebbe immaginare un'analogia sportiva: i campioni delle generazioni successive che migliorano i tempi e i record delle generazioni precedenti grazie a più efficaci tecniche di allenamento, grazie ad una maggiore attenzione all'alimentazione, grazie a nuove scoperte e quindi a nuove conoscenze sul funzionamento del corpo e dell'organismo. Ma l'analogia non reggerebbe. La mia impressione, totalmente di pancia e non supportata da dati reali (lo sottolineo), è che i servizi di ingegneria clinica non siano migliorati così tanto da poter aver contribuito a benchmark così bassi. Come in tanti sappiamo, qualcuno ha di recente sostenuto, in una gara pubblica nazionale, che, per alcune classi di apparecchiature (e non stiamo parlando neanche di quelle tecnologicamente meno "avanzate"), si può effettuare la manutenzione spendendo ogni anno nientepopodimeno che lo 0.01% del valore di rinnovo. Quindi per un'apparecchiatura dal valore di 30 mila euro, è possibile, spendendo 3 euro all'anno, effettuare una manutenzione a regola d'arte (e chi fa questo mestiere sa cosa significa seguire la "regola dell'arte" per apparecchiature sulle quali si applicano leggi e norme tecniche a volte molto stringenti, essendo connesse con la salute delle persone).
Ma non voglio parlare di questo.
Voglio invece dire che a furia di fare a gara a chi ce l'ha più lungo (o più corto in questo caso), prima o poi arriva qualcuno che mette fine al gioco dichiarando una lunghezza imbattibile (almeno sulla carta).


Poniamoci allora per un attimo il dubbio che il gioco fosse sbagliato dall'inizio. Per molti di noi, anche adesso, nel 2015, è possibile ritrovare nell'anima questa tendenza al "ribasso". Ho sentito racconti di trattative esasperate ed esasperanti per arrivare dal 10% al 15% di sconto su un intervento di riparazione. Mi chiedo se solo io ritenga che, per un intervento dal costo di 300 euro, perdere il proprio tempo, il proprio inchiostro, la propria carta o semplicemente la propria banda, ritardando magari di una settimana la risoluzione del guasto, con il risultato finale di risparmiare alla fine 15 euro, sia da considerarsi follia pura. La cosa è antieconomica pure solo a pensarla, figuriamoci a metterla davvero in atto. Eppure sono sicuro che molti di noi l'hanno fatto almeno una volta, o magari continuano a farlo regolarmente. E magari lo utilizzano anche come "arma" di auto-accreditamento nei confronti del proprio datore di lavoro, perché può darsi che il dato relativo alla settimana persa di risoluzione guasto vada a finire in un calderone gigantesco di inefficienza collettiva e quindi si perda di vista, mentre il dato solido dei 15 euro in meno, è li, per quanto stupido. E' li ed è incontrovertibile.
La logica dei 15 euro ha portato allo 0.01%. Magari non proprio in modo così diretto e così banale, ma chissà.


Spesso ai miei tirocinanti chiedo quale sarebbe un metodo semplice e rapido per far crollare la percentuale di manutenzione sul valore di rinnovo. La pongo così: "Ragazzi, sono stanco di andare a fare brutte figure ai convegni mostrando i dati della nostra manutenzione che si aggira sul 10%, voglio che mi troviate una soluzione immediata per far scendere questa percentuale". I ragazzi ci pensano un po', tirano fuori le loro idee, alcune acerbe, altre ingenue, altre anche geniali, ma nessuno arriva alla conclusione più banale. "E' semplicissimo." dico io. "Da domani la manutenzione non la facciamo più. Disdiciamo i contratti, non chiamiamo più nessuno ad intervenire, non compriamo ricambi e la nostra percentuale si abbasserà quasi allo zero per cento". Non scenderebbe proprio a zero perché ci sarebbe ancora il mio (a quel punto inutile) stipendio. Però pensate la soddisfazione nel confrontare il dato: "Noi siamo arrivati al 6% grazie ad un'ottimizzazione delle scorte di magazzino", "Noi grazie a degli accordi quadro sull'alta tecnologia complessivamente siamo arrivati al 5,4%", "Noi con la gestione integrata delle risorse distribuite sul territorio viaggiamo intorno al 4%". Poi arrivo io e dico: "Io sono allo 0%!". Standing ovation.

Aldilà del racconto surreale, fatto solo con lo scopo di strappare un sorriso, spero sia chiaro il messaggio che voglio lanciare. Cominciamo noi a smettere di parlare sempre di risparmio. A Napoli diciamo "'O sparagn' nun è maje guaragno" (il risparmio non è mai guadagno) e credo proprio che ogni tanto bisognerebbe ascoltare la saggezza popolare.
Anche perché dovremmo aiutare il mondo della sanità ad uscire da una schizofrenia di massa, almeno noi che siamo ingegneri e che ci troviamo bene a lavorare con i numeri.
Recentemente ho ascoltato Mariano Corso, dell'Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano ad un convegno a Roma. C'è un dato, oggettivo, ribadito anche da altri, che chissà perché facciamo spesso finta di non conoscere. In Italia si spende in Sanità meno della media europea. E non stiamo parlando solo del confronto con Francia, Germania, Svezia e Finlandia, ma di tutta l'Europa. Chiedete oggi ad un qualsiasi cittadino italiano dove bisogna tagliare nella Pubblica Amministrazione. Vi risponderà sicuramente nella Sanità. Come siamo riusciti a creare questo cortocircuito? O meglio come abbiamo fatto a non ostacolarlo e a non opporci (perché è chiaro che qualcuno ci sta marciando da anni su questo giochino). Come potremo mai spiegare all'uomo della strada che, visto che in Sanità si spende meno di oltre un terzo del resto dell'area Euro, ormai non c'è rimasto più niente da tagliare?
E' antipopolare. Meglio buttarla in caciara, sul fatto magari che i dipendenti pubblici sono tutti fannulloni, che al sud c'è solo la camorra, che rom e extracomunitari sono la vera disgrazia di questo paese, ecc. ecc. Va bene, non sono qui certo a cambiare il mondo. Magari effettivamente troppo complicato mettersi a discutere con l'uomo della strada cercando di sradicare da lui tonnellate di pregiudizi, ma almeno non diciamocele tra di noi le bufale. Fermiamoci. Basta parlare di risparmio e tagli una volta per tutte. Se l'anno scorso un servizio di ingegneria clinica ha speso 4 milioni di euro in manutenzione, quest'anno non si deve porre come obiettivo quello di spenderne 3,5. No, magari 4,1 invece, investendo li dove è strategico per l'azienda magari sul lungo periodo.

Tempo fa ho avuto la fortuna di seguire un corso di formazione incentrato sulla misurazione della performance, tenuto dalla SDA Bocconi. Si sono scritti tomi e tomi sull'argomento, io vi riporto solo un concetto che mi è rimasto molto impresso, quello della Balanced Scorecard. Assolutamente non può essere questa la sede per illustrarvi cos'è, né io sarei minimamente qualificato a farlo, ma il concetto di base è che pur avendo un insieme di indicatori che in qualche modo determinano la nostra performance, questi andrebbero organizzati in prospettive tra di loro bilanciate.


Portare a zero i costi di manutenzione è una follia che farebbe sicuramente scattare il verde smeraldo sui miei indicatori economici, ma nel breve, medio e lungo periodo, farebbe sballare sul rosso demoniaco tutti gli altri (cito tra tutti il solo MTTR, Mean Time To Repair). 


Eppure, noi ingegneri clinici, non siamo certo in un contesto dove manchino i KPI. Ricordo con un sorriso misto di stupore, incredulità e ammirazione un intervento fatto durante il convegno della mia associazione, l'AIIC, nel 2012 a L'Aquila, di un responsabile di un SIC che aveva elaborato e implementato all'interno del suo software gestionale un algoritmo di calcolo dell'IPS (Indice di Priorità di Sostituzione) basato su 71 indicatori. Adesso, senza chiaramente voler innescare un'altra gara a chi ce l'ha più lungo (l'elenco di indicatori), non sarebbe comunque il caso di spostare la nostra attenzione dal solo vil denaro ad un sistema di indicatori maggiormente efficace che possa davvero dare un'idea complessiva della performance sul breve, medio e lungo periodo del nostro operato?
Potrebbe accadere il miracolo: potrebbe succedere che qualcuno cominci a ragionare su di una procedura di gara che si ponga l'obiettivo di garantire un risultato ottimale su diverse prospettive e non solo sul piano economico.

mercoledì 1 aprile 2015

You are not your job!

E' di questo periodo il gran discutere del libro della giornalista del Washington Post, Brigid Schulte sui cosiddetti overwhelmed, i perenni indaffarati che non hanno mai tempo.



Leggevo un articolo su Linkedin proprio qualche giorno fa. "Dovremmo smettere di lamentarci di non avere tempo di fare le cose e semplicemente cominciare a farle", recitava parte dell'articolo. Nella lettura di questo, così come di altri articoli simili, non nascondo di aver provato un certo fastidio. Quel fastidio che deriva dalla sensazione di riconoscersi in qualcosa di sbagliato e di provare a giustificarsi facendo dei distinguo o cercando degli alibi.
Ma inutile tergiversare troppo, è così. Io mi ritrovo ad essere uno di questi famigerati overwhelmed. Tuttavia spero di essere almeno uno di quelli consapevoli del proprio "disturbo". Chi frequenta il mio ufficio sa che ho sempre sottomano il libro di David Allen sul GTD: perché la mia perenne mancanza di tempo è sicuramente dovuta anche alla mia incapacità di gestirlo bene.


In ogni caso, nonostante cerchi di recuperare strada con la teoria, è la pratica a fregarmi. Spesso ho illustrato ad amici alcune delle tecniche di organizzazione del tempo: ad esempio amo la teoria delle quote nella definizione delle priorità, ma purtroppo spesso mi ritrovo a non riuscire io stesso a evitare di "razzolare" male, nonostante le mie belle prediche. 

Ok. Dopo essermi quindi comodamente accomodato dalla parte del torto (dove mi trovo sempre un po' più a mio agio), vediamo però se qualche attenuante la riusciamo a tirare fuori, magari parlando anche un po' di ingegneria clinica, per non fare un torto al blog.
Io lavoro a Napoli, in Campania quindi, dove, secondo me, è arrivato un messaggio un po' distorto ad alcune aziende ospedaliere e sanitarie: invece della necessità di strutturare dei Servizi di Ingegneria Clinica, si è pensato di risolvere il problema reclutando in giro delle figure mitologiche, che messe da sole dietro ad una scrivania, siano (teoricamente) in grado di risolvere la maggior parte dei problemi inerenti le apparecchiature biomediche. Si è pensato quindi che l'Ingegnere Clinico, potesse da solo svolgere il lavoro che altrove (e in modo sano e produttivo) viene svolto da un Servizio di Ingegneria Clinica. Abbiamo quindi degli inconsapevoli protagonisti di one-man show che, anche se da un lato affascinano lo spettatore che si chiede come sia possibile per una sola persona svolgere tutto quel lavoro, dall'altro nascondono la triste realtà che il livello di servizio erogato è inevitabilmente basso. Io amo dire: "Facciamo tutto, male".


Siamo quindi overwhelmed, ma in qualche modo predestinati ad esserlo, non per scelta. E' probabile che alla fine, qualche volta, sia quasi inevitabile il piangersi addosso, così come sarà sicuramente vero che qualcuno ne farà uno status sociale, diventando in qualche modo dipendente dal suo affogare nelle carte, ma un'altra verità è che grandi alternative a tutto questo ce ne sono poche. Il mio Direttore Generale, durante un evento svoltosi nel dicembre scorso, riportò un dato inquietante: dal momento della costituzione della nostra nuova azienda (1 gennaio 2011) avevamo perso 800 unità di personale per pensionamento. Nella maggior parte dei casi, unità non reintegrate (a causa del famigerato blocco del turn-over, derivante dal fatto che la Regione Campania è una regione sottoposta a piano di rientro dal MEF). 800 unità per un'azienda che oggi ne conta circa 2000 ne rappresentano una fetta davvero consistente. E andrà sempre peggio.

Ribadendo quindi che migliorare la gestione del proprio tempo è probabilmente possibile nella stragrande maggioranza dei casi, me assolutamente compreso, non vorrei che però l'etichetta dei "falsi indaffarati" fosse l'ennesimo pretesto per cercare di spremere ancora di più chi è già quasi al limite della sopportazione, dando al tempo stesso un alibi al blocco delle assunzioni.
Se il discorso degli overwhelmed serve a togliere schizofrenia in alcuni contesti, restituendo dignità, oltre che tempo libero, alle persone, io sono in prima fila. Se invece, e lo dico da tecnologo e innovatore, siamo all'esasperazione del paradigma dell'any a tutti i costi, ossia anytime, anywhere with any device applicato al mondo del lavoro, la cosa mi fa un po' di paura. Anche perché ritengo che alla fine identificarsi esclusivamente con il proprio lavoro, sia davvero molto deprimente per un essere umano. Il lavoro dovrebbe essere il mezzo con il quale contribuisci al benessere collettivo, per fare in modo che nel tuo tempo libero il lavoro degli altri contribuisca al tuo. Voglio lavorare, anche sodo, anche bene, ma per poi poter andare al cinema a godermi un grande film. Per poi poter leggere un bel libro, per ascoltare bella musica. Per viaggiare, per fare sport. Per fare tutte quelle cose che alla fine formano, insieme al lavoro, la mia vita. Da qualche mese campeggia nel mio ufficio un foglio che riporta uno dei monologhi di Fight Club, quello che inizia con "You are not your job".



Magari non siamo la canticchiante e danzante merda del mondo, ma ogni tanto ricordiamoci che c'è vita anche e soprattutto fuori dai nostri uffici.